24 settembre 2014

Fade Out

Da: L'Espresso.it

Jobs act, non basta lo stop all'articolo 18. Ora le aziende potranno demansionare
Il governo Renzi abbatte un tabù dietro l'altro. Nell'emendamento del governo alla legge delega non c’è solo il contratto a tutele crescenti ma, per le imprese, c’è la revisione della disciplina delle mansioni. L'avvocato del lavoro: “sulla dequalificazione le aziende avranno carta bianca”."



Il sagrato della chiesa era illuminato dal sole ancora caldo di una domenica di Settembre quando, al termine della Messa, i fedeli iniziarono a defluire perplessi e preoccupati, formando capannelli e commentando ciò che era accaduto poco prima. Don Tarcisio era ormai da molti anni il loro parroco, amato e stimato esempio di rettitudine e dedizione, mai una parola fuori luogo, mai un'incertezza, ma quella domenica era avvenuto un fatto stranissimo. Durante la liturgia, subito dopo l'offertorio e la preghiera eucaristica, Don Tarcisio si era bloccato, pallido in volto, lo sguardo rivolto nel vuoto. Furono momenti che a tutti sembrarono interminabili, e alla fine il sacerdote, con aria smarrita, si rivolse verso il chierichetto alla sua destra e con voce esitante gli chiese:
- Co.. cosa.. cosa devo fare adesso? -
- Le ostie, Don Tarcì, devi darci la comunione alla gente!! -, rispose stupito il bambino.

Ben presto la popolazione realizzò che non si era trattato di un malore, ma del primo sintomo di qualcosa di ben più grave.I giorni successivi vi furono casi di rappresentazioni teatrali sospese all'improvviso, di professori di liceo che interrompevano imbarazzati le spiegazioni per cercare sui libri, quiz televisivi annullati per mancanza di concorrenti, giudici che rimandavano le sentenze a date imprecisate, persino un popolare attore si era bloccato in TV, durante il suo spettacolo sulla Divina Commedia, con lo sguardo fisso verso la telecamera, perché non ne ricordava più i versi. Sembrava una epidemia, un velo nero che offuscava e dissolveva pian piano la memoria, come se una mano invisibile stesse lentamente cancellando dalla mente degli esseri umani tutto ciò che essi avevano letto, studiato, imparato a memoria. I codici di legge, i libretti d'opera, le preghiere, gli avvenimenti storici, persino le poesie di Natale recitate da bambini in piedi sulla sedia. Tutto ciò che era stato letto era svanito via, come fumo nel vento e tutti si trovarono con la mente azzerata, ancora capaci di adempiere alle incombenze della vita quotidiana, ma soltanto d'istinto, non perché ricordassero da dove venissero le proprie capacità.

Tutti, tranne Giacinto, il vecchio servitore del barone. Lui no, stranamente il destino aveva voluto che lui non fosse toccato dall'epidemia. Non che nel suo caso facesse molta differenza, in fondo non aveva avuto occasione di leggere molto. Da giovanissimo la sua famiglia lo aveva affidato alla famiglia degli Strozzi, e con essi aveva vissuto per tutta la vita, all'inizio come semplice servitore e in seguito come maggiordomo tuttofare, quindi la sua cultura consisteva in tutto ciò che aveva potuto leggere sui giornali o ascoltare alla radio. Oggi Giacinto era un anziano pensionato, ma aveva continuato a far visita tutti i giorni al barone.

 Il barone Alfonso Maria Strozzi di Roccapreziosa era un nobile decaduto. Gli antichi sfarzi della sua famiglia erano ormai soltanto un lontano ricordo ed ora campava con i pochi aiuti che riceveva ogni mese da un nipote emigrato in Australia, dove aveva aperto una gelateria. Aveva venduto tutto, terre, proprietà, armenti, mobili, persino lo stemma di famiglia. Conduceva una vita estremamente riservata nel palazzetto che gli era rimasto, dove occupava soltanto una stanza con un letto a baldacchino, un tavolo di mogano, due sedie, una poltrona rococò, una lampada con le frange di seta e la sua amata biblioteca. Quella no, quella non l'avrebbe mai venduta. L'aveva popolata lui, sin dalla sua infanzia, libro dopo libro, un tomo dopo l'altro, centinaia e centinaia di volumi si erano accumulati negli anni ed ora occupavano interamente tre lati dell' unica grande stanza dove passava le sue giornate. Era orgoglioso della sua biblioteca e si vantava di averli letti tutti quanti quei libri.

Passava tutto il suo tempo con loro, li spolverava, li accarezzava e ogni volta che ne tirava fuori qualcuno dagli scaffali, lo apriva e gli parlava, come se fosse un vecchio amico. Ne sfogliava le pagine e lo annusava, ognuno con il proprio odore, il proprio aroma, e subito gli tornavano in mente i contenuti, la trama, le tesi filosofiche, i trattati scientifici, i racconti avventurosi, le dimostrazioni matematiche, le storie d'amore, le dispute oratorie, le recensioni, le descrizioni di paesi esotici, le mappe geografiche, i versetti coranici e i vangeli apocrifi, i poemi cavallereschi, i cavalieri, le ricette della nonna, le elegie greche e quelle latine, le critiche letterarie, i poemi epici, le cronache storiche. E poi i personaggi, un turbinio di nomi che reincontrava ogni volta con l'entusiasmo della sua gioventù, quando si era immaginato amico di Tremal-Naik, e si era innamorato di Ginevra, e aveva dialogato con Democrito ed Eraclito, il riso ed il pianto, conosciuto Eurialo ed il suo amico Niso, percorso l'Afghanistan attraverso gli occhi verdi di Laila e la solitudine di Mariam, consolato Emilio Brentani e sua sorella Amalia, si era immedesimato in Cavaradossi e aveva risposto ai tre indovinelli di Turandot. La sua vita si era intrecciata con quella dei personaggi, veri o inventati, dei suoi libri, come l'edera che vive della quercia alla quale è avvinta.

 Quel giorno Giacinto si era recato come sempre a far visita al barone, il quale stavolta però non lo attendeva come sempre in cima alle scale. Insospettito, il vecchio servitore si avvicinò alla stanza e aperta la porta rimase sbigottito. Il barone, inginocchiato sul letto, scriveva e scriveva senza fine sul lenzuolo bianco, con le lacrime agli occhi. E non era soltanto il lenzuolo, ma ogni superficie libera nella stanza era ricoperta di parole scritte, gli stipiti della porta, i vetri delle finestre, il soffitto, il pavimento, tutto era incredibilmente e completamente ricoperto di parole scritte con la minuta, obliqua calligrafia del barone.
  - Barone, barone! Ma cosa state facendo? Fermatevi, per carità, così vi prenderà un malore!- esclamò Giacinto, cercando di rialzare il nobile.
- I miei libri, se ne stanno andando tutti!- mormorava affannato il barone,- Devo tenerli con me, devo riscriverli prima che svaniscano del tutto.-

Quello era il dramma del barone: la sua vita coincideva con quella dei suoi libri e i suoi libri esistevano finché egli ne ricordava il contenuto, ma ora essi si stavano dissolvendo, uno dopo l'altro. Leggerne il titolo o l'autore non gli restituiva niente, solo parole vuote, la sua biblioteca si stava trasformando in un ammasso di carta inchiostrata e cuoio, la quercia era sparita e l'edera si afflosciava su se stessa.
 - Baro', è inutile-, cercò di dissuaderlo Giacinto - non potete riscrivere tutto, e anche se fosse non lo ricordereste. Tutto il Paese è nella vostra stessa situazione. Nessuna ricorda più niente.-
- Ma come è possibile vivere così!- gridò don Alfonso, - noi siamo ciò che ricordiamo! Senza la memoria del passato, di ciò che è stato scritto, siamo destinati a dover vivere una vita da bestie!-
 - Don Alfò, forse è meglio così. Forse questa è la giusta punizione divina. Voi sono anni che vivete chiuso qui dentro, ma fuori le cose andavano sempre peggio. Fuori tutto veniva deciso senza guardare alle esperienze del passato. Sembrava che a nessuno fregasse più niente di capire come o perché. Tutte le sofferenze, i sacrifici fatti da chi è vissuto prima di noi venivano considerati inutili, senza senso, addirittura derisi. E allora, baro', è meglio così, cancelliamoci tutto dalla memoria, mille volte meglio tramutarsi in bestie e vivere da bestie, che scoprirsi bestie, ma con il ricordo di aver avuto una dignità umana. Credete a me, io vi invidio, don Alfonso. 
Dimenticate, dimenticate tutto, voi che potete. 
Meglio svanire, meglio svanire...-