22 marzo 2011

Amor patrio

Da: Repubblica.it
Inno di Mameli alla Regione Lombardia
i consiglieri leghisti vanno alla buvette

Nuovo schiaffo della Lega ai 150 anni dall'Unità d'Italia. A pochi giorni dall'arrivo in Lombardia del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la delegazione del Carroccio ha disertato, come aveva minacciato, l'esecuzione dell'inno nazionale prima del consiglio regionale lombardo.
...


...
il vice di Roberto Formigoni, il leghista Andrea Gibelli e gli altri leghisti, tra cui il figlio di Umberto Bossi, Renzo, preferivano bere tranquillamente un cappuccino con brioche alla buvette della Regione. Tanto da rimanere fuori anche durante il minuto di silenzio per le vittime del terremoto in Giappone.

Un operaio
Sono Futoshi Toba, ho 59 anni. Non avrei mai pensato di dover un giorno raccontare la mia insignificante storia, ma non posso fare a meno di lasciare queste mie parole a disposizione di chi vorrà trarne un insegnamento.
Per quarant'anni ho cercato di servire con onore il mio Paese, ultimamente lavorando alla centrale atomica di Fukushima, fin quando Madre Terra, lo scorso 11 Marzo, non ha punito duramente il nostro orgoglio.
Sapevo bene cosa stava succedendo alle centrali e sapevo anche che mancavano solo tre mesi alla mia pensione, ma improvvisamente ho realizzato che non sapevo più cosa ne avrei fatto di tutto il tempo che avrei avuto a disposizione. Il notiziario ha sconsigliato la popolazione di celebrare lo hanami, troppo pericoloso rimanere all'aperto a contemplare i nostri sakura, anche perché probabilmente essi non fioriranno quest'anno, e forse nemmeno i prossimi. Improvvisamente mi sono visto passare i miei giorni futuri a piangere la mia terra martoriata, a veder morire i miei amici uccisi da un nemico invisibile, a rimpiangere la consolazione di una famiglia che non ho mai avuto. No, non erano questi i miei piani per la mia vecchiaia. Io volevo solo un orto da coltivare, buona verdura da far crescere e regalare ai vicini, ed ora neanche questo potrò più fare. Chi mai accetterà i miei ortaggi, contaminati dalla nostra superbia?
Così, quando il nostro direttore ci ha riuniti ed ha chiesto con le lacrime agli occhi chi di noi conoscesse meglio il reattore numero 4, perché era assolutamente necessario entrare e intervenire al più presto, mi sono fatto avanti. I miei compagni erano così giovani! Loro potranno tentare una nuova vita altrove e potranno pregare il mio Paese di riflettere se questa sia la strada giusta per assicurarci un futuro, mentre io dovevo assolutamente restituire un senso alla mia vita e onore al mio Paese, o a quello che ne restava.

A proposito, non avevo mai visto prima il reattore numero 4.

Un fruttivendolo
Per grazia di Allah il Misericordioso, il mio nome é Mohamed Bouazizi, e sono nato 26 anni fa in una piccola cittadina al centro della Tunisia. Mio padre è morto presto, troppo presto, così dall'età di 10 anni sono dovuto diventare io il principale sostentamento della mia famiglia. Ho anche studiato, sapete, sono arrivato molto vicino a diplomarmi, ma poi ho capito che non era il caso di farsi molte illusioni, meglio puntare su mia sorella più giovane.
Così ho lasciato perdere i miei studi e mi sono impegnato ancora di più nel lavoro che facevo da ragazzino, vendere frutta e verdura col mio carrettino in giro per le strade della mia città. Ho sempre lavorato onestamente e non mi sono mai lamentato, nemmeno quando, e questo avveniva regolarmente sin da bambino, la polizia mi sequestrava la merce dicendo che non avevo la licenza. Io sapevo bene che nessuna legge lo vietava, e che mi perseguitavano solo per estorcermi soldi e divertirsi ale mie spalle, così accettavo le loro persecuzioni come una prova mandatami da Allah il Generoso e continuavo con il mio lavoro, con la speranza, prima o poi, di comprarmi un furgoncino.
Quel giorno mi ero indebitato per acquistare la frutta da rivendere per le vie della città, e quando quella poliziotta mi ha fermato, mi ha sequestrato tutto, ha rovesciato il mio carretto, ha insultato la memoria di mio padre e infine mi ha schiaffeggiato davanti a tutti, qualcosa si è lacerato dentro di me. Sapevo che nessuno mi avrebbe difeso, sapevo che urlare non sarebbe servito a niente. Improvvisamente non avevo più speranze, non riconoscevo più la mia terra, non avrei avuto più il coraggio di guardare mia madre negli occhi. Così ho preso il barattolo di diluente che avevo in casa, mi sono recato nella piazza principale e me lo sono versato addosso.
Dicono ora che le fiamme che hanno divorato le mie carni hanno innescato il fuoco della rivoluzione nel mio Paese, dicono che sono un nuovo Jan Palach, un martire.

In nome di Allah il Testimone, io volevo solo comprarmi un furgone.

Un ragazzo senza nome
Questa é la nostra rivoluzione! Abbiamo deciso noi stessi, in prima persona, di dire basta ad un regime che ci ripeteva cosa essere, cosa volere, quale dovesse essere il nostro futuro. Abbiamo voluto dire basta ad una finta repubblica che si perpetuava da quaranta anni con finte elezioni ed un unico candidato. Questa è la rivoluzione di noi giovani, una rivoluzione senza nome. Ce la siamo costruita, l'abbiamo organizzata da soli, con Internet, per inseguire un sogno, quello di scoprire cosa sia mai questa democrazia della quale abbiamo tanto sentito parlare sulla Rete. Probabilmente scopriremo che non fa per noi, scopriremo che quello che gli occidentali credono essere democrazia non è nient'altro che una ruota da criceti da far girare per tutta la vita, al servizio dei poteri economici, ma anche se fosse così, noi vogliamo scoprirlo da soli. Ci siamo preparati per mesi, iniziando con dei post sui blog e aggregandoci pian piano, come granelli di sabbia, finché ci siamo trasformati in tempesta, prendendoli di sorpresa. D'altra parte, come poteva un regime guidato da un ottantatreenne capire qualcosa di Twitter, di bloggers, di democrazia nella Rete? Così, con loro stupore, ci siamo ritrovati in centomila in piazza Tahrir e quando hanno capito che facevamo sul serio, sono entrati nel panico, hanno cercato di oscurare Internet, di portarci via il nostro tam-tam, ma così hanno firmato la loro fine, perché il popolo ha capito che il regime era confuso, che diventava sempre più debole, che aveva paura e allora la piazza si è riempita di oltre un milione di persone e l'esercito non ci ha attaccato, perché non sapeva come fare.
Solo la polizia, la polizia e la guardia presidenziale, ci hanno affrontato, ma cosa potevano ottenere, oramai? Noi eravamo il nuovo, il giusto, noi eravamo ormai padroni del nostro futuro. Cosa potevano fare? Così, quando li ho visti entrare nel mio quartiere, sono sceso in strada e li ho affrontati, con la forza dei miei vent'anni, del mio coraggio e della mia disperazione. Era la mia rivoluzione, era il mio momento, era l'occasione per restituire al mio Paese la sua dignità e costruire per tutti un futuro diverso, fatto di giustizia e modernità nel rispetto della nostra cultura millenaria.
Quei poveri giovani in divisa, così giovani e così vecchi, non hanno saputo far altro che spararmi al petto, sperando di fermarmi.

Non sapevano che un ragazzo senza nome non può morire.